venerdì 26 luglio 2013

Vestiti italiani, capitali francesi: Il caso Emilio Pucci


















Da quando lo storico marchio fiorentino è stato acquisito dal colosso del lusso LVMH sta vivendo una rinascita: ricavi raddoppiati in due anni e aperture di nuovi flagship in programma nei mercati emergenti.

Le ragioni della svolta di un brand che stentava a decollare a livello globale sono nelle parole pronunciate dal CEO, Alessandra Carra: “La famiglia è custode del patrimonio culturale, mentre Vuitton, con le sue dimensioni, favorisce lo sviluppo e tutto il sostegno possibile”.

Prima che Vuitton scommettesse su Pucci acquisendo il 100% del pacchetto azionario, il fatturato non superava i 50 milioni di euro e la società faticava a penetrare nei mercati emergenti del lusso, soprattutto in Asia. Il colosso francese sapeva bene però che, integrando il know how storico del produttore fiorentino con la propria solidità finanziaria e liquidità economica, i propri canali distributivi, l’esperienza globale, oltre all’inserimento di un management  estremamente qualificato e con background internazionale, il brand avrebbe preso il volo. E così è stato.

Il caso di Pucci rispecchia bene le principali problematiche delle imprese italiane che faticano a raggiungere nuovi mercati stranieri: le dimensioni e la mancanza di management competente. Rispetto ai suoi principali competitor europei - Francia, Germania e Regno Unito -  l’Italia presenta il numero maggiore di imprese di piccole dimensioni. Una ricerca condotta da Banca d’Italia ci ricorda che “più piccola è la dimensione, più difficoltoso è sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’attività di ricerca e sviluppo, l’innovazione, l’accesso ai mercati esteri”.

Avere prodotti invidiati e apprezzati in tutto il mondo ed essere in grado di valorizzarli: questa è la scommessa vinta da Emilio Pucci, Fendi, Bulgari, Loro Piana, Pernigotti ma anche da molte piccole e medie imprese che hanno fatto affidamento su capitali stranieri e management orientati alla globalizzazione mantenendo allo stesso tempo ben saldo know how e identità italiani.  

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lunedì 15 luglio 2013

Salami goes to the USA














Dal maggio scorso gli USA hanno aperto all’esportazione di salumi semistagionati (salame, pancetta e culatello) provenienti da Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Trentino Alto-Adige, considerate zone immuni dalla Malattia Vescicolare del Suino (MVS). Vanno così ad aggiungersi le regioni per le quali era già stata certificata l'assenza di MVS, ovvero Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche e Valle d'Aosta

Una notizia “epocale” secondo l’Associazione delle industrie italiane della carne e dei salumi (ASSICA), poiché permetterà di far decollare le esportazioni di un intero settore in uno dei mercati più importanti del mondo. Il giro d’affari si stima possa raggiungere i 250 milioni di euro di maggior export.

Ora, molte imprese italiane dovranno attrezzarsi per sbarcare nel mercato statunitense imparando a conoscerne le peculiarità in campo culturale e nel business. E’ vero infatti che negli States il made in Italy è riconosciuto, apprezzato e di gran moda ma attenzione: non sottostimate le barriere culturali e linguistiche presenti in un mercato così grande e complesso.

p.s: salami in inglese è singolare di salame

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